San Giuseppe
Nel maggio del 1684 Genova subì un terribile bombardamento da parte della flotta francese. La rovina si abbatté sull’abitato: la dogana venne interamente distrutta, e seriamente danneggiati Palazzo San Giorgio, il Portofranco, le chiese di Santa Maria in Passione, Nostra Signora delle Grazie, Sant’Ambrogio, lo stesso San Lorenzo. L’Oratorio della Confraternita della Morte, presso San Donato, bruciò per più giorni: dalle rovine della sacrestia, dov’erano conservate le suppellettili liturgiche, “corse un prezioso rivo d’argento”…
L’osservazione è dell’annalista Casoni, che anche precisò come dei 6.000 edifici che componevano la città, ben 2.000 furono colpiti, e di questi 1.000 completamente distrutti. Ma si ritenne che le 13.000 bombe finite su Genova nei quattro giorni di fuoco avrebbero potuto provocare perdite ben più considerevoli, e in una sorta d’inchiesta emerse che specialmente nutrite erano state le preghiere a San Giuseppe: a questi si attribuì l’intercessione, e a titolo di ringraziamento, come pure a futura difesa, addirittura fu eletto Patrono di Genova. Già nel 1637 la Madonna era stata proclamata Regina della città, e i Senatori osservarono che il riconoscimento accordato al particolarissimo marito “sarebbe cosa molto grata ad Essa”.
Fra noi, peraltro, il culto per il Santo era stato decisamente precoce. Se il pontefice Gregorio XV doveva nel 1621 dichiarare festa di precetto il giorno a lui dedicato, a Genova già nel 1518 il doge Ottaviano Fregoso l’aveva posto fra le solennità: ogni cittadino – era stato sancito – “durante lo giorno della detta festa debbia tenere la sua buttega serrata, e questo si fa per celebrare solennemente detta festa, sotto pena di fiorini 4 alli contrafacienti”.
Del resto, i nostri avi avevano con Giuseppe un rapporto di vera familiarità: almeno a giudicare da remote leggende, che precisano fra l’altro come il Santo si esprimesse disinvoltamente in genovese, e anche contribuisse a dare il nome a tre località: Varazze, Pra’ e Pegli.
Durante la fuga verso l’Egitto la Sacra Famiglia – evidentemente tra le soprannaturali possibilità dell’ineffabile terzetto non era contemplato il senso d’orientamento – si trovò a passare per il Ponente. Ad un certo momento l’asino come tanti suoi “confratelli s’impuntò ostinatamente, rifiutandosi per lungo tempo di muovere un passo, malgrado i reiterati incitamenti di Giuseppe: “Va, aze! Va, aze!’… Tanto ripetuti, appunto, da fissare il nome del luogo in Vàze, Varazze.
Quanto agli altri toponimi, le relative leggende non piaceranno – come diceva Guareschi – alle signore che prediligono i versi di Sinisgalli, ma son troppo gustose per ometterle.
Ripreso il cammino verso Genova, dunque, il sullodato ciuco emise ad un tratto uno sconveniente quanto clamoroso rumore. Per onomatopeia, il luogo fu detto Pra’. Ma di lì a poco il somaro si ripetè più volte, giustificando l’esclamazione del Santo: “Semmo in sci paegi!” (Siamo daccapo)… E dall’esclamazione prese nome la località: Pegi, cioè Pegli.
Ritornando a più seri argomenti, diremo che nel primo scorcio del XVI secolo era sorto presso lo stradone di Sant’Agostino un oratorio dedicato a Giuseppe, accogliente la “Casaccia dei Falegnami” – suoi particolari protetti – il cui statuto venne riconosciuto nel 1534 da papa Paolo III. Pochi anni prima era stato pure fondato il “Conservatorio delle Figlie di San Giuseppe”, teso alla salvaguardia delle giovani abbandonate e orfane. Dopo qualche sistemazione provvisoria le Joseffine – come furono chiamate – trovarono la loro sede in Portoria, in un convento dotato d’una esigua cappella, tanto frequentata da indurre presto i responsabili alla costruzione – nello stesso ‘500 – d’una chiesa d’ampie dimensioni. Eretto proprio dinanzi a Palazzo Spinola, attuale sede della Prefettura, il tempio fu abbattuto nel 1872 per l’apertura di via Roma, e oggi soltanto il toponimo di “largo San Giuseppe” ne ricorda l’esistenza. Anche le Joseffine furono del resto trasferite ad altra sede, nella salita inferiore di San Rocchino: ma allora era nota piuttosto come “creusa do formaggio” per la presenza di rivenditori evidentemente rinomati…
E il riferimento mangereccio ci ricorda il binomio San Giuseppe frittelle. Una tradizione ancor oggi largamente rispettata dai genovesi, ligi al proverbio specifico: “A San Giòxeppe, se ti peu impi a poela de frisceu” (A San Giuseppe, se puoi, riempi la padella di frittelle). Frittelle salate d’ogni tipo, e crocchette di riso, e “coccolli de patatta”, e frittelle dolci, gonfie beatamente d’uvetta e mele, raggiungenti la tavola in caleidoscopica successione, sulla festosa colonna sonora dell’olio crepitante, nel più assoluto disinteresse, una volta tanto, per le vicende del proprio fegato.
Una bizzarra consuetudine è purtroppo perduta completamente. Ogni falegname genovese impegnava la vigilia a ripulire del più piccolo truciolo la sua bottega, imbandendo l’indomani la mensa sul banco stesso di lavoro, per tutti gli amici. A chi, tra essi, capitava la frittella colma d’ovatta, andava l’obbligo di offrire di tasca propria il vino… Una iattura non trascurabile, considerando anche che per lo sfortunato era ancora lontana nel calendario la possibilità di rifarsi, con una scorpacciata a spese altrui degli zucchini ripieni, tradizionali a Sant’Antonio, o delle melanzane, altrettanto debitamente ripiene, legate invece a San Gaetano… E va da sé che rimandiamo i lettori agli specifici capitoli.
Cucculli de patatte (Crocchette di patate)
Granatinn-e (Crocchette di riso)
Frisceu dosci (Frittelle dolci)
Fruta (Frutta)