Dalle oche di Penelope ai capponi
Omero ed Esiodo — purtroppo per loro — non mangiarono polli; ovvero, nelle loro opere non si trova alcun accenno ai saporiti pennuti. I quali, infatti, dal vicino Oriente giunsero in Grecia soltanto nel VIII secolo a.C, ma per oltre cent’anni rappresentarono un’estrema rarità. Agli inizi del V secolo a.C, peraltro, già i polli domestici erano elemento comune della vita rurale, largamente impiegati sia nelle ampie cucine, per ottimi piatti, che nelle piccole arene, per accaniti combattimenti.
Nella stessa epoca, i coloni greci l’introdussero in Sicilia e nell’Italia meridionale. A Imera, centro ionico-dorico sulla costa settentrionale dell’isola, nel 481 a.C. si coniò una moneta recante sulle due facce l’immagine del gallo e della gallina: un riferimento all’uccello sacro ad Esculapio, il dio della medicina, nella città famosa per le sue fonti curative.
Dalla Magna Grecia, poi, i polli guadagnarono lentamente la penisola, sino alla nostra regione e oltre. A Roma, curiosamente, venivano impiegati pure per conoscere il futuro. Ai «polli sacri», prima d’un evento notevole, si distribuiva becchime: se s’ingozzavano velocemente, l’auspicio era buono; segno infausto, al contrario, se si mostravano schizzinosi. Ma dovevano esservi scettici, al proposito, e fra questi l’ammiraglio Publio Claudio Pulero, che nel 249 a.C, in imminenza d’una battaglia navale nel quadro della 1″ guerra punica, alle prese con polli che sembravano considerare nauseabondo il cibo, ordinò di gettarli in mare: «Se non vogliono mangiare — disse più o meno — almeno bevano»… Ma ad edificazione dei superstiziosi, subito dopo fu a Drepana sonoramente sconfitto dai Cartaginesi.
Galline costrette a bagni marini compaiono pure nella storia di Genova, anche se notevolmente più tardi: nell’estate del 1264, nelle acque di Durazzo, quando la «muda», la grande carovana veneziana carica di merci pregiate, fu attesa da appena sedici nostre galee. Forze tanto inferiori suscitarono gli scherni più cocenti, gli uomini di San Marco persino gettarono polli nelle onde: «Cum Istis prellatis!. — gridarono tra grasse risate — «Combattete con questi!…. Ma il comandante genovese, Simone Grillo, mostrò che era in grado di affrontare qualcosa di più. Attese il tramonto, poi attaccò il convoglio: soltanto la «Capitana» avversaria riuscì a scampare essendo sopravento, e il bottino dei nostri fu grandissimo…
Ma i polli — a Genova e altrove — ebbero generalmente impieghi meno inquietanti, anche se i diretti interessati non si sarebbero mostrati dello stesso avviso. Consentiti dalle «Leggi Suntuarie» fv. pag. 5), comparivano sulle mense con relativa frequenza, acquistabili nelle bottegucce «specializzate» di Soziglia; piazza Pollaioli, infatti, venne soltanto nel 1631, dopo una sede intermedia in piazza San Giovanni il Vecchio. E severe norme igieniche regolavano la vendita: i pennuti non potevano essere offerti ai clienti se uccisi da più di due giorni nella stagione invernale, e da più di uno in quella estiva. Ma qualcuno preferiva — anche allora — la produzione estera, a patto di potersela permettere: così i libri mastri di casa Doria registrarono fra altro, per il 1579, ben lire 15,12, consegnate a certo Baldassare de’ Miachi, responsabile del buon arrivo da Milano di «50 caponi, 16 polli d’India (ossia tacchini), 60 quaglie e una sporta di spareghi».
Anatre e oche — per passare ad esse — rispetto ai polli mostrano un’associazione coll’uomo molto più antica. Le anatre vennero a noi dalla Mesopotamia; ancor prima le oche — già menzionate nell’«Odissea», con Penelope che ne possedeva un piccolo stuolo — giunteci da sud, dove si recavano a svernare ed era facile catturarle con reti, ma anche dai paesi del nord, quelli d’origine, dove nidificavano e ancor più agevole era l’ipossessarsi dei piccoli implumi.
Più recente, invece, l’arrivo dei tacchini. Colombo e i suoi furono i primi europei a vederne, numerosissimi e già addomesticati, nelle terre scoperte; per Brillat-Savarin, anzi, «il tacchino è assolutamente una dei più bel nomi che il mondo nuovo abbia regalato all’antico». E l’autorevolissimo gastronomo spiega che la prima comparsa ufficiale ad un banchetto avvenne nel 1570, per le nozze di Carlo X con Elisabetta d’Austria; precisando puntigliosamente che il re si degna di assaggiarne l’ala sinistra…
Michelangelo Dolcino