I fiabeschi arrosti del passato
Senza dubbio, il primo modo con cui si cucinò la carne consistette nella diretta esposizione’alla fiamma. Gli ‘arrosti», dunque, precedettero gli tumidi», che prevedono l’uso di recipienti di cottura; questi ultimi vennero soltanto in epoca neolitica, con la terracotta. Gli arrosti rimasero comunque per una quantità di secoli il cibo per eccellenza, presente ad ogni banchetto appena importante. Quando poi si voleva onorare particolarmente un ospite, si procedeva in sua presenza all’uccisione dell’animale, dinanzi a casa, cucinando subito dopo i pezzi migliori. Cosi nel canto IX dell”«Iliade» si comporta appunto Patroclo, su invito di Achille: «Tutto tagliò con arte, 1 pezzi Infilò negli spiedi, di sale cospargendo, di vino le carni sospese»…
E a parte una ragionevole frollatura, ad intenerire la carne e insaporirla, tale «ricetta» omerica sarebbe accettabilissima ancor oggi, e sostanzialmente rimase immutata per lunghissimo tempo. Nell’VIII secolo — per limitarci ad un unico, ma illustre esempio — era il piatto preferito da Carlo Magno, come testimoniò il suo biografo Eginardo: «Era assai sobrio nel mangiare e nel bere (…) Il suo pranzo quotidiano si componeva di sole quattro portate, non contando l’arrosto che I cacciatori solevano presentargli sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo»…
Colazione modesta, ammetterete. rispetto ai pantagruelici banchetti di cui ci è giunta notizia: come quello, poniamo, offerto nel 1324 ad Avignone dal pontefice Giovanni XXII, per le nozze della nipote, per cui vennero immolati otto buoi, altrettanti maiali, cinque cinghiali, cinquanta montoni, un migliaio di polli, duecentosettanta conigli, seicento capi di nobile selvaggina pennuta, più una quantità imprecisata di più modesti uccelletti. Né più economico dovette risultare il pranzo imbandito nel 1367 da Galeazzo Visconti per gli sponsali della figlia Violante con Lionetto, erede dell’inglese Edoardo III: ben diciotto portate vennero presentate a ritmo spietato agli invitati, tra cui Francesco Petrarca, quali «un gran vitello intero e dorato con trote all’intorno», o «due porcellini dorati che mandavano fuoco dalla bocca».
Anche a Genova, naturalmente, le carni arrostite ebbero un ruolo prevalente nei conviti. Le già ricordate «leggi suntuarie» impedivano gli eccessi di cui sopra, ma notevoli strappi alle regole si dovevano pur registrare, come nel pranzo natalizio consumato a Palazzo Ducale. Tra l’Arcivescovo e gli Anziani spiccava il Doge, con manto d’oro foderato d’armellino, eretto sul trono, in una coreografia di piante profumate; ad essi venivano presentate carni di bue, di vitello, agnello e maiale, convenientemente arrostite e cosparse di polvere d’oro. Ma molto spesso erano affogate in salse che oggi ci scorticherebbero lingua e faringe, prima d’operare un’accurata devastazione dei visceri essenziali, composte com’erano delle diverse specie di pepe, garofano, cannella, zafferano, e «galanta», «macis», «gengevero». «cubebbe»… Sostanze preziose che colmavano gli albarelli degli «speziari», nelle visitatissime botteghe di Sottoripa, e il cui impiego smodato rappresentava l’apporto delle Crociate alla gastronomia.
Purtroppo, non si hanno per tali tempi ricettari nostrani, che presenterebbero più d’un motivo d’interesse. I cuochi attingevano unicamente dalia propria esperienza, o si servivano dei volumetti che quasi timidamente apparivano in altri luoghi, con le loro curiosissime indicazioni. Ad esempio, nelle cucine mancava ovviamente ogni tipo d’orologio; come stabilire per quanto si doveva rimestare un intingolo, o tenere alla fiamma determinati ingredienti? Associando vantaggiosamente culinaria e cura dell’anima, si consigliava di farlo per il tempo di sussurrare tre avemarie, poniamo, o cinque paternostri…
Michelangelo Dolcino