Oro liquido
Il proverbio è noto: «frite, son bonn-e e seue de scarpe asci»: fritte, son buone pure le suole delle scarpe. E infatti il fritto — a cui dedicheremo necessariamente vari inserti — è un motivo ricorrente, nella sinfonia della nostra culinaria, con amplissimo sfruttamento d’uno dei più preziosi prodotti locali, l’olio. Col maggior stupore. quindi, leggiamo in «Liguri a tavola», di Massimo Alberini, che «la cucina ligure, benché basata sull’olio d’oliva, non si vale molto dei fritti»: una vera e propria eresia, una delle tante formulate proposito della gastronomia che ci riguarda, cosi misconosciuta… L’olio, comunque, vien considerato originario dell’Asia Minore e della Siria. I Fenici, che efficacemente lo chiamarono «oro liquido», avrebbero portato l’olivo specialmente in Libia e Cirenaica; i Greci lo trapiantarono nell’Attica, considerandolo un dono diretto di Minerva. Ad Atene, gli alberi verdeggianti presso l’Aeropago erano ritenuti sacri, e chi osava sciuparne uno era colpito da sequestro dei beni ed esilio. Coloni greci, ancora, l’introdussero in Sicilia, e da qui li conobbero più tardi i Latini. Poeti romani, al proposito, dovevano cantare le lodi degli olivi sabini o sanniti, mentre Garrone considerava migliore in assoluto l’olio proveniente da Cassino.
L’«oro liquido», appunto, rappresentò il più diffuso condimento della cucina romana e medievale: soltanto a partire dal 1400 il «butirro» — sin allora tenuto in ben scarsa considerazione — prese a scalzarne gradatamente l’impiego nelle regioni settentrionali d’Italia, con un’unica eccezione: la Liguria…
Secondo alcuni, anche tra noi furono i Romani a portare il fruttifero vegetale, mentre per altri ci giunse dalla Provenza, dove t’avrebbero introdotto i Focesi; ma per i più, vi giunse soltanto più tardi, ad opera dei Benedettini, che tra il 1100 e il ‘200 s’insediarono nell’entroterra della costa che va da Marsiglia a Imperia. Contemporaneamente, tuttavia, nuclei di tali monaci si sistemavano pure nel Levante, specie nelle terre lavagnine, e inserirono anche qui la particolare coltura, in nome del loro credo, esaltante la preghiera e il lavoro. Da queste due zone — Imperia ed entroterra del Lavagna — gli olivi si estesero appunto a tutta la Liguria. Mantenendo sino al ‘500 — come per tutti gli altri prodotti agricoli — caratteri di pura sussistenza, servendo cioè esclusivamente alle necessità locali; ma dilatandosi a partire dal secolo successivo, quando gli olivi ebbero gradatamente il predominio sulle varie colture, specie di cereali, e man mano molti dei mulini che caratterizzavano il paesaggio vennero soppiantati dai «gombi», ossia i frantoi.
Per diverse ragioni la produzione locale d’olio d’oliva è recentemente scemata, ma i Liguri sono rimasti sostanzialmente fedeli al suo impiego, in linea peraltro con le più recenti asserzioni della dietetica, che lo fanno preferire ad ogni altro tipo di grasso vegetale o animale, specie per il fritto. Ma le doti peculiari erano già perfettamente intuite nel 1450 da Maestro Martino — cuoco personale del Patriarca d’Aquileia e senza rivali, a detta di molti contemporanei, in culinaria — che nel suo «Libro de arte co-quinaria» antepose appunto a tutti i tipi di condimento il «bono oleo», considerandolo insostituibile nei fritti, massime di pesce; o da Michele Savonarola, medico patavino-ferrarese, il quale con altrettanta sicurezza nel «Libretto de tutte le cose che se manzano communemente» affermava come la carne «frita con lo oleo è più lezeira e meglio se padisse».
Michelangelo Dolcino