Calendimaggio

24 Marzo 2019 0 Di admin

“Se non credete Maggio sia venuto,
alla finestra verso il monte e il piano,
che’ vedrete fiorita l’uva e spigato il grano”…

Queste le parole iniziali di un’antichissima canzone di Riomaggiore, echeggiante in passato durante la festa di Calendimaggio, cioè del primo giorno del mese, celebrante il pieno risveglio della natura.

Certo le manifestazioni connesse erano più notevoli altrove. Dante, sia detto per inciso, vide la prima volta Beatrice proprio in un Calendimaggio fiorentino, e San Francesco, in una simile occasione, sentì nella sua Assisi il primo richiamo di “Madonna Povertà” – ma anche fra noi il mese dei fiori veniva degnamente accolto, a Sant’Anna, poniamo, San Pantaleo, Sant’Eusebio…

Senza confronti, tuttavia, i festeggiamenti di Sant’Oberto, a Sestri Ponente, rinomati per il numero delle donne che vi convenivano in vesti suntuose, e l’abbondanza e la qualità dei rinfreschi. Tutti apparivano impegnati a seguire i pifferi della “rionda”, danzata alzando ritmicamente le gambe, e della “moresca”, dove i partecipanti, “vestiti alla foggia orientale e spagnola – come spiega Cervetto – graziosamente si affrontano, si inchinano, alternano al ballo bellissimi giochi d’armi”…

Feste, quelle di Sestri, di lunga fortuna nell’arco degli anni, tanto da non essere sospese neppure nel 1748, in piena guerra contro l’Austria: gli alleati spagnoli e francesi, anzi, con le loro divise multicolori conferirono particolare vivacità; e anche una particolare sonorità, considerato che contemporaneamente si svolgeva sulla spiaggia l’esercitazione a fuoco del reggimento “Real Borgogna”.

La giornata rappresentava pure una sorta di festa dell’amore: in tale occasione i giovani dichiaravano i loro sentimenti, ponendo dinanzi all’uscio dell’amata il “maggio”, un ramo con fiori e profusione di nastri. Ma poteva accadere che la più bella del luogo trovasse due, tre e anche più “maggi”, con conseguenze non certo festose… Gli alterchi, comunque, addirittura le risse, erano qualche volta sventate da un’altra operazione, piuttosto crudele: offrire il “maggio” – e più d’uno, fingendo poi scoppi di gelosia – alla nubile più attempata e meno gradevole.

Gli scherzi, per l’appunto, le beffe erano componente essenziale della giornata, ancor oggi in qualche modo sopravvissute in talune località: noi stessi siamo stati recentemente testimoni, in Fontanabuona, della disperazione d’un giovane, alla vista della propria motocicletta sulla più alta biforcazione di un albero: frutto evidentemente di un notevolissimo sforzo corale e di lungo impegno…

Complessivamente, tuttavia, ad un certo momento le manifestazioni del Calendimaggio vennero a morte, presto sostituite però da altra occasione di festa: il 1° Maggio inteso come giornata dei lavoratori.

Fu nel 1884 che il Congresso delle Trade Unions, tenuto a Chicago, stabilì che “a partire dal 1° maggio 1886 la normale giornata lavorativa sarebbe stata fissata in otto ore e che tutte le organizzazioni operaie si preparassero a ciò”; e tale giorno conobbe scioperi al calor bianco e tragiche collane di episodi sanguinosi, prima negli Stati Uniti poi anche altrove: sinché il Congresso Internazionale Socialista di Parigi, nel 1889, fissò al 1° maggio la giornata di rivendicazione operaia, estesa a tutti i paesi. Via via, comunque – parallelamente alle conquiste dei lavoratori – l’occasione perse i caratteri contestatari, per diventare festa. Proibita energicamente da Crispi nel 1890, in Italia la celebrazione si ebbe la prima volta l’anno seguente; sostituita durante il Fascismo dalla festa del Natale di Roma (21 Aprile), si ripropose alla definitiva caduta di questo, sinché il 30 Aprile 1947 venne proclamata giornata festiva a tutti gli effetti. Ricordiamo infine che la Chiesa, col pontefice Pio XII, vi affiancò nel 1955 la celebrazione di San Giuseppe Artigiano.

Tradizionalmente occasione di gite, con delibazione di acciughe ripiene e magari delle frittate che suggeriamo per altre feste; ma per chi preferisce rimanere a casa, “primo” ideale è rappresentato dai “pansòuti”, che col contenuto di magro hanno buonissime probabilità di essere gli avi del raviolo, come abbiamo accennato nel capitolo dedicato al giorno di Sant’Agata. Un ripieno in cui domina il “preboggion”, che incontreremo altrove: un “bouquet” di erbaggi che varia anche radicalmente da luogo a luogo, comprendendo le specie più diverse… Ma il perché del

nome curioso?

Durante l’assedio cristiano a Gerusalemme – si racconta – accadde un giorno che il preclaro Goffredo di Buglione fosse terribilmente affamato. Ciò è ovvio, può accadere pure ad un condottiero; quello che meraviglia, se mai, è che la sussistenza accusasse tali pecche da non potergli offrire il minimo cibo. Allora un drappello di Crociati – il simbolo stesso dell’altruismo – si portò fin sotto le mura della Città Santa, non badando al rischio dei dardi, per raccogliere negli elmi erbe commestibili. Una cernita, letteralmente, “prò Buglion’. E da tali parole, secondo la storiella patentemente falsa, deriverebbe il termine “preboggion”, insieme, appunto, di vegetali mange­recci.

Secondo altri, tuttavia, quello stesso “pro-buglion” corrisponderebbe ad una stravolta contrazione di “calderone sul prato”. In effetti, l’8 Agosto e sino a tempi recenti, a Sestri Ponente venivano consumati pub­blicamente un minestrone e un polpettone d’erbaggi. La raccolta labo­riosa avveniva a cura di donne e ragazzi, che in tal modo ricordavano la penuria di cibo, la ricerca comune di vegetali appena commestibili del terribile anno 1800, che già abbiamo citato a proposito delle “Tomaxelle” (v. a Epifania).

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