San Michele
“A San Miche, e strasse san d’amè”… E così: a San Michele – 29 Settembre – i cenci sanno di miele, con l’iniziato Autunno e le frequenti piogge l’aria è rinfrescata, umida…
Eppure i nostri avi – o almeno molti fra essi – proprio in quel giorno affrontavano ore particolarmente fervide. Per consuetudine, scadevano i contratti agricoli, il che comportava un notevole lavorio, si rinnovassero o meno; poi, per analogia, si effettuarono perlopiù nella stessa data pure i traslochi cittadini, insediandosi in una nuova abitazione.
Un’operazione inquietante quanto gravosa, lo sappiamo tutti, comportante necessariamente un pasto affrettato, consumato in qualche modo nel più vicino esercizio di torte e farinate, o preparato dalla consorte, fra l’imballo di chicchere e piatti, e le raccomandazioni del caso al carrettiere… Per questo suggeriamo un menù – se può chiamarsi tale -con due “punti fermi” per tali occasioni: le torte di riso, rispettivamente, e di bietole. Unica avvertenza, non mangiarne in quantità eccessiva, dovendo subito dopo affrontare, poniamo, quella sorta d’incontro di lotta libera che è l’arrotolare i materassi, o l’altro match con l’armadio a tre ante da smontare.
Altri cittadini si affidavano al mezzodì dello stesso giorno a tale pasto consumato in qualche modo, ma per ragioni indubbiamente più divertenti per loro, anche se non lo era affatto per la parte avversa: la caccia. Infatti, ricorrendo ad altro proverbio, “A San Miche e oxellèe son in pè” (A San Michele, le uccelliere sono in piedi). Si apriva cioè la caccia praticata con capanni e richiami, che pare fosse prediletta dai liguri del passato; anche se diremmo, in base agli antichi documenti, che ogni tipo d’insidia portata alla selvaggina avesse ampio credito.
La più remota testimonianza in materia risale addirittura all’anno di grazia 864. Un solenne sinodo provinciale si tenne allora in Milano, con la partecipazione di Pietro, Agilulfo e Adalberto, vescovi rispettivamente di Genova, Albenga e Vado; il relativo Capitolo VI doveva deplorare la partecipazione del clero, per l’appunto, a partite di caccia. Ciò non toglie che anche successivamente abati ed alti ecclesiastici praticassero tale attività e pure ne avessero l’esclusiva su determinati territori, per privilegi concessi da monarchi. Va peraltro notato che la caccia rispondeva a ben precise necessità, ancora rappresentando certe specie selvatiche un serio pericolo per l’incolumità dei contadini nei campi, e altre prede integrando invece in misura indispensabile la dieta carnea, in tempi di così scarsi e mal selezionati allevamenti.
I mezzi usati furono dapprima l’arco, naturalmente, e la balestra, nel cui impiego i genovesi notoriamente eccellevano; ma anche reti, falchi e cani, che ben addestrati potevano raggiungere un considerevole prezzo. Così, se nel 1249 un esperto falcone di Corsica valeva ben 20 soldi, leggi arcisevere ne scoraggiavano il furto: il ladro d’uno sparviero, ad esempio, doveva “pagare tanti scudi d’oro, e non potendo fare ciò, lasciarsi divorare dall’uccello tante once di carne viva in quella parte del corpo più polputa che ogni altra”. Per un cane da caccia, invece, il multato insolvente “lo portasse sulle spalle, facendo tre volte il giro della pubblica piazza, e poscia lo baciasse sotto la coda”…
Vennero poi i fucili, e della loro funesta efficacia, ma soprattutto dell’abbondanza della selvaggina, ci fornisce un probante esempio il 1785, con la visita di Ferdinando IV di Napoli e della consorte Maria Carolina. Il mattino del 2 agosto fu organizzata per lui nel bosco del Santuario del Monte una battuta al cervo, ricordata da una lapide all’esterno della chiesa. Come in una brughiera inglese, sulle pendici caserecce echeggiarono a lungo le musicali grida dei battitori, i richiami dei corni l’abbaio delle mute. L’angusto schioppo ebbe modo di abbattere tre superbi animali; 10 zecchini donati ai portatori e 40 ai frati testimoniarono la sovrana soddisfazione per l’impresa.
Ciò che stupisce maggiormente è proprio la ricchezza di specie attorno all’abitato, ancora nell’Ottocento. Se tra gli uccelli, poniamo, era possibile nel greto del Bisagno imbattersi in una “grua”, un “perdigiorni grixo” o un “perdigiorni cenen” – ovvero una gru, un tarabuso, un airone cinerino – tra i mammiferi, appena oltre Molassana, si poteva incontrare il “gatto sarvaego” o il “gatto spùsso”, il “fuin”, la “lùddrà” il “màrtio”, il “gi”, la “bélua”: gatto selvatico, rispettivamente, puzzola, faina, lontra, martora, ghiro, donnola.
Cacciatori per passione, ma anche – ripetiamo – per la carne, la pelliccia, o altre particolari necessità: così per il ghiro, atteso all’imbrunire nell’atto di assaltare frutteti e vigne, e la donnola, per cui si ci appostava con eguale determinazione presso i pollai. Ma quest’ultimo predatore poteva anche essere addomesticato, in tenera età, per sostituirlo vantaggiosamente al gatto, nella lotta ai topi di casa…
Torta de giaee (Torta di bietole)
Fruta (Frutta)